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Kenya Land-Grabbing, minaccia o opportunità per lo sviluppo?

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jannis
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Kenya Land-Grabbing, minaccia o opportunità per lo sviluppo?  Empty Kenya Land-Grabbing, minaccia o opportunità per lo sviluppo?

Gio 10 Nov 2011, 21:39
Dopo più di un decennio di investimenti carenti nel settore agricolo, negli ultimi cinque anni il trend si è rapidamente invertito ed il mondo ha assistito ad uno spettacolare incremento di acquisizioni terriere per la produzione agricola. Uno studio recente della Banca Mondiale ha evidenziato come nel solo 2009, ben 56 milioni di ettari di terra coltivabile siano passati nelle mani di investitori esteri, contro i circa 4 milioni di ettari dell’anno precedente.
Le ragioni di questo rinnovato interesse sono riconducibili agli alti prezzi di grano, mais e altre commodities; prezzi che rimarranno elevati per almeno un decennio, rendendo particolarmente profittevoli gli investimenti in agricoltura. In aggiunta, la crescita della popolazione mondiale ed il cambio di dieta da parte di una crescente borghesia in molti Paesi in via di sviluppo hanno reso gli investimenti in proprietà terriere necessari: la FAO stima che per tenere il passo con la crescita demografica, la produzione alimentare dovrà aumentare del 70% entro il 2050.
Chi oggi investe in terra lo fa dunque per la produzione di prodotti agricoli destinati al consumo umano. Di norma però investitori provenienti dai Paesi ricchi esportano nei loro mercati d’origine i prodotti coltivati nel Sud del mondo, con il risultato di contribuire all’acuirsi dell’insicurezza alimentare in Stati già afflitti da scarsità di cibo e carestie. Tra questi investitori si distingue un nutrito gruppo di Paesi del Golfo, che tramite i loro fondi sovrani gonfi di petrodollari, cercano di rimediare alla carenza di terre coltivabili e risorse irrigue accaparrandosi risorse e delocalizzando la loro produzione alimentare.
Vi sono poi numerosi progetti relativi a colture per la produzione di biocarburanti. Dal momento che molti di questi prodotti sono parte integrante della dieta umana, e che le terre sulle quali sono coltivate avrebbero potuto essere assegnate alla produzione alimentare, ne risultano ulteriori tensioni sul prezzo del cibo. Altri attori invece non fanno parte dall’agribusiness più tradizionale e hanno fini prettamente speculativi: tra questi vi sono alcuni fondi finanziari che investono in proprietà terriere nell’Africa Sub-Sahariana, promettendo ritorni del 30% annuo. Non è infine da sottovalutare l’apporto dato dai maggiori fondi pensionistici americani che, secondo l’ONG Grain, nel solo 2010 hanno destinato ben 10 miliardi di dollari all’acquisizione di terre coltivabili al di fuori del territorio americano.
All’incirca il 70% di questi investimenti sono diretti verso Paesi africani: in particolare Sudan del Sud, Etiopia, Mozambico, Mali, Repubblica Democratica del Congo e Madagascar sono i maggiori destinatari di investimenti diretti esteri (IDE) in terra coltivabile. L’interesse per l’Africa è tutt’altro che casuale, se si considera che si trovano qui più di tre quarti degli stimati 800 milioni di ettari di terra fertile non coltivata presenti nel mondo. Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, si pensi che un gruppo cinese ha acquisito 2,8 milioni di ettari nella Repubblica Democratica del Congo (una superficie superiore alla Sardegna) per la produzione di olio di palma per biodiesel, e che la sudcoreana Daewoo Logistic aveva un progetto, poi abortito, per l’acquisizione di 1,3 milioni di ettari in Madagascar, ossia la metà dell’intera superficie coltivabile del Paese.
L’interesse per l’Africa Sub-Sahariana è anche dovuto ai termini contrattuali favorevoli per gli investitori, con i governi dell’area che si impegnano a cedere ogni diritto sulla terra per lunghi periodi, dai 50 ai 99 anni, a prezzi che non superano i 5 dollari annui all’ettaro: un gruppo texano si è accaparrato 600.000 ettari nel Sudan del Sud per 99 anni, ad un costo di 3 centesimi all’ettaro. In realtà, diversi investimenti hanno subito lo stesso destino del piano sudcoreano, tra cui anche il progetto nel Sud Sudan, scontrandosi con forti proteste locali e una mobilitazione internazionale, che ha rapidamente portato ad etichettare il fenomeno come “land-grabbing”.
Indubbiamente, i rischi in questo tipo di investimenti sono altissimi per le popolazioni locali, che senza poter reagire si vedono espropriate della loro terra, spesso unica fonte di sostentamento e che in Africa incorpora anche fondamentali valori sociali e culturali. Ma a destare le maggiori preoccupazioni sono soprattutto questioni legate al rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al cibo, all’autodeterminazione, all’indennizzazione e alla proprietà, sanciti da fondamentali convenzioni internazionali quali il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione ILO n. 169 sulle popolazioni tribali e indigene.
Tuttavia, alcune organizzazioni internazionali, tra cui la Banca Mondiale, affermano che il “land grab” potrebbe portare benefici notevoli per Paesi in costante necessità di capitali, e che l’apporto di imponenti IDE potrebbe contribuire allo sviluppo interno di un settore agricolo moderno. Per questo motivo solitamente i governi preferiscono offrire un regime incentrato su introiti di natura non fiscale, ossia l’impegno da parte dell’investitore di intraprendere ulteriori investimenti in infrastrutture in grado di contribuire alla modernizzazione del Paese. Purtroppo, la mancanza di know-how ed una posizione di disparità durante il processo di negoziazione si traduce spesso in un regime contrattuale altamente sbilanciato a favore dell’investitore, che riesce a spuntare condizioni favorevoli in termini di esenzioni fiscali, non bilanciate da impegni vincolanti o chiaramente applicabili delle clausole favorevoli per lo sviluppo.
Per rimediare agli effetti distruttivi delle acquisizioni terriere, la risposta data dalla comunità internazionale è stata quella di un codice di condotta volontario, volto ad assicurare il rispetto dei diritti fondiari preesistenti, della sicurezza alimentare, della trasparenza delle negoziazioni, incrementando governance e accountability di tutti gli attori coinvolti. Questo è l’obiettivo delle linee guida attualmente dibattute in sede FAO e presumibilmente pronte per il 2012. Tuttavia, i detrattori del land grabbing ribadiscono che un codice di condotta avrebbe l’effetto di legittimare il fenomeno e contribuirebbe ad un suo incremento, con effetti ancora più distruttivi.
Certo è che la natura degli investitori, in particolare se fondi sovrani o governi nazionali, rende chi investe molto meno ricettivo a tematiche di Corporate Social Responsibility. Nemmeno le campagne di “naming and shaming” – rivelatesi di successo in passato – potranno risultare efficaci verso investitori che vendono i loro prodotti sul mercato delle commodities, vanificando il cosiddetto “potere del consumatore”.
Il problema del land grabbing sembra così ben lungi dall’essere risolto, e dato che i trend che lo alimentano sono destinati a durare a lungo anche in futuro, la comunità internazionale dovrà inventarsi qualcosa di meglio di un semplice set di linee guida.

meridianionline
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