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Kenya La borsa del tè di Mombasa, seconda al mondo

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jannis
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mombasa - Kenya La borsa del tè di Mombasa, seconda al mondo Empty Kenya La borsa del tè di Mombasa, seconda al mondo

Ven 28 Set 2012, 17:32
La tensione è palpabile nella sala ad anfiteatro gremita di compratori. Al centro, seduto su un palco di legno, un broker passa in rassegna il suo catalogo, presentando i vari lotti di tè e proponendo il prezzo base. La giornata è fiacca, ma intorno al lotto numero 13 si scatena un'improvvisa asta.
«Due dollari al chilo!», propone un rappresentante della Lipton, «Due e dieci!», rilancia un piccolo compratore locale, tra gli sguardi delle altre decine di presenti in sala, incuriositi dall'esito della contesa. «Venduto a 2,56 a Lipton!», dichiara il broker dopo l'ultimo rilancio, battendo sul tavolo con il suo martello di legno, mentre il compratore perdente sfoga la frustrazione scalciando sotto il tavolo. L'intera vendita non è durata più di venti secondi.
Siamo a Mombasa, in Kenya, nella sede della East African Tea Trade Association (Eatta), l'organizzazione che comprende 167 membri tra broker, produttori e compratori di tè provenienti da undici Paesi dell'Africa orientale. La sede dell'associazione ospita una delle borse del tè più importanti al mondo, la prima per volume di vendite e la seconda, dopo quella di Colombo in Sri Lanka, per giro d'affari (cresciuto del 300 per cento negli ultimi vent'anni). Attraverso la borsa di Mombasa viene commercializzata la quasi totalità del tè proveniente dall'Africa orientale, pari al 32 per cento di quello esportato globalmente, per un business che muove circa 10 milioni di dollari a settimana. Da qui il tè, principale fonte di valuta estera del Kenya, viene spedito in tutto il mondo, dall'Egitto (primo partner commerciale davanti a Pakistan e Regno Unito) alla Russia, dagli Stati Uniti all'Italia.
«Ci affidiamo al nostro nome e alla qualità dei nostri prodotti», spiega il broker Tom Muchura, vero guru della borsa di Mombasa. «Fino a pochi anni fa Stati come il Sudan, i Paesi dell'ex Unione Sovietica o quelli della Penisola arabica non erano nostri clienti». Sui 60 anni, metà dei quali passati a commerciare tè, Muchura è il broker di maggior successo e quello con il portafoglio di clienti più importante. Ottime credenziali per chi, come rappresentante dei produttori, è la figura di raccordo tra questi ultimi e il compratore. Con le loro capacità di leggere il mercato, i broker sono la vera anima della borsa di Mombasa. «Per fare questo lavoro bisogna sapere cosa significa produrre e lavorare il tè, essere in grado di distinguere le differenze tra le varie qualità e dare consigli ai produttori su cosa richiede il mercato», spiega Muchura, che in un normale giorno di lavoro può arrivare ad assaggiare più di 600 qualità di tè. «Ma bisogna anche avere personalità e parlantina, essere in grado di prendere decisioni istantanee durante l'asta e di saperle giustificare di fronte ai propri clienti».
Organizzate tre volte a settimana, le aste cominciano la mattina alle otto con la massima puntualità e si protraggono fino a pomeriggio inoltrato. Tutti i broker, dal più affermato all'ultimo arrivato, si presentano sul palco secondo una rigorosa rotazione stabilita dall'Eatta, che cambia di giorno in giorno per assicurare le stesse opportunità a tutti. In un'asta dove i lotti vengono assegnati in pochi secondi, l'abilità personale e l'esperienza sono fondamentali. «Un broker capace è quello che sa chi vuole cosa, e indirizza i suoi prodotti verso i clienti giusti, per esempio chiamandoli per nome durante l'asta, per stimolare un'offerta», spiega Abdullahi Haji Jamaa, commerciante di tè presso la Maymun Enterprises. Dall'altra parte della barricata, anche i compratori hanno tattiche per volgere le aste a loro favore. «Chi ha bisogno di comprare una gran quantità di tè in un giorno potrebbe decidere di non acquistare i primi lotti, per non caricare di aspettative il mercato e far alzare i prezzi», spiega il 35enne Aweys Mohamed, manager presso la Tss Grain Millers. Nonostante l'inevitabile competizione, il mercato del tè coinvolge un numero limitato di persone e ciò contribuisce a conferire un'atmosfera familiare a tutto l'ambiente. «Bene o male ci si conosce tutti – scherza Mohamed –, e questa è una delle ragioni che mi fanno amare questo business». Ogni martedì, al termine dell'asta, i broker si ritrovano allo Sport Club di Mombasa per una birra, commentano i migliori affari di giornata e si scambiano pettegolezzi.
Nell'ultimo anno, l'argomento principale di conversazione è stata la Primavera araba che, provocando un crollo della domanda di tè in Egitto e negli altri Paesi della regione, ha provocato la crisi più pesante che abbia mai colpito il settore. A farne le spese è stato anche Mohamed, la cui compagnia è il secondo esportatore di tè in Egitto dopo il colosso Finlays. «Il business non è andato bene l'anno scorso», ammette. «Le violenze avevano colpito anche porti e magazzini e pochi accettavano di trasportare merci nel Paese per paura dei saccheggi». Complice anche l'attività dei pirati somali che operano attorno allo Stretto di Aden, spedire tè in Egitto significava scegliere rotte alternative attraverso il Sudafrica, l'Arabia Saudita o l'Oman, tutte opzioni molto costose. Al contrario di quello indiano, il tè africano cresce tutto l'anno ed è impossibile immagazzinarlo sperando in tempi migliori. In passato, le maggiori crisi coincisero con la cacciata degli asiatici dall'Uganda da parte di Idi Amin, negli anni Settanta, e con le violenze postelettorali in Kenya nel 2008, che provocarono centinaia di morti e bloccarono produzione e borsa.
Ma c'è anche chi, nella guerra, ha scoperto opportunità per fare affari: Jamaa è un ex ingegnere chimico keniano di origini somale, lanciatosi nel commercio del tè nel 1999. Con un giro d'affari annuo di circa un milione e mezzo di dollari, è uno dei più piccoli commercianti che bazzicano la borsa. Senza grandi capitali e senza la possibilità di lavorare sulle grandi quantità, ha deciso di puntare le sue fiches sui mercati emergenti e su quelli più rischiosi, snobbati dalle grandi multinazionali: Russia e Sudan, ma soprattutto Somalia. Far arrivare la merce in un Paese devastato da vent'anni di guerra civile – e il cui territorio è spartito tra gruppi clanici, milizie islamiche e una sembianza di Governo transitorio – è complesso. Per riuscirci, Jamaa deve passare anche attraverso le regioni controllate dagli estremisti islamici dello Shabaab. In realtà «basta pagar loro una piccola "tassa" e la merce arriva a destinazione senza che nessuno la tocchi», assicura con un sorriso malizioso.
Il suo magazzino, eredità di famiglia situato alla periferia di Mombasa, funge anche da ufficio: un vecchio computer e una stampante, una bilancia, uno schedario e una scrivania sporchi di polvere di tè sono tutto l'equipaggiamento di cui dispone. Nel locale principale, ingombro di sacchi, i suoi 17 dipendenti miscelano tè senza macchinari: bucano i fondi dei sacchi e camminano in circolo sul pavimento finché le differenti qualità non si mischiano tra loro. Barbetta ispida, occhiali e lo sguardo orgoglioso di chi ce l'ha fatta, Jamaa racconta i suoi inizi: «Ci sono voluti quattro anni per entrare nel mercato. Nelle mie condizioni, la maggior parte della gente avrebbe mollato prima».
Nonostante la crescita di Mombasa, Jamaa rimane scettico sulle prospettive della borsa locale: cinque anni fa, il Governo di Dubai ha creato un nuovo Tea Trade Center, con il chiaro obiettivo di sottrarre clienti e business a Mombasa. «A Dubai offrono fino a 60 giorni gratis di immagazzinaggio merci, solo per attirare clienti. Invece la politica keniana non ci aiuta: il porto è piccolo, le infrastrutture sono carenti e l'elettricità costa venti volte di più che nel Golfo». La mancanza di regole per tutelare l'origine del prodotto è un altro dei problemi con cui si scontrano i produttori del Paese: buona parte del tè africano importato in Egitto viene infatti impacchettato e rivenduto in Medio Oriente come egiziano.
«Più del 40 per cento del tè bevuto a Londra è keniano, ma nessuno lo sa», conferma con amarezza Brian Ngwiri, marketing manager presso l'Eatta. «Stiamo tentando di registrare il nostro marchio, ma il mercato è dominato dai grandi brand dei compratori. Il nostro tè perde la sua identità nel momento stesso in cui entra in magazzino».
Ora, la riforma più gettonata è quella dell'informatizzazione della borsa, che mira a mettere direttamente in contatto produttori e compratori tramite aste telematiche. Una novità osteggiata da buona parte dei broker, che vedrebbero drasticamente ridotta la loro quota di mercato. «Ritengo che la componente umana in questo lavoro sia fondamentale e insostituibile, non importa quanto precisa possa essere una macchina», obietta Muchura. «Per fare questo lavoro, serve passione». Nonostante i successi già ottenuti in campo lavorativo, il "vecchio leone" è deciso a rimanere in sella ancora qualche anno, prima di ritirarsi a riposare, neanche a dirlo, in una piantagione di tè. «Non c'è nulla di più bello di un campo coltivato a tè, il colpo d'occhio che si ha è così riposante. È dorato in cima e verde alla base delle piante. Toccarlo è come una carezza gentile sulle dita, sembra quasi di poterci navigare sopra. E, se si fa attenzione, lo si può sentire crescere».

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