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Kenya Elezioni Usa, questo poteva essere Obama

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jannis
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Kenya Elezioni Usa, questo poteva essere Obama Empty Kenya Elezioni Usa, questo poteva essere Obama

Mer 07 Nov 2012, 17:36
Interessante articolo di Imma Vitelli pubblicato su Vanity Fair il 02/11/2012

Lo stesso sangue, lo stesso dolore, lo stesso padre che li ha abbandonati bambini. Ma uno è alla Casa Bianca, l'altro vive in una baraccopoli


Piove a Nairobi, il giorno in cui George Hussein Onyango Obama, il fratello di Barack Obama, l'attuale presidente dell’America, mi porta nel ghetto in cui abita. Ci lasciamo alle spalle gli eleganti edifici del centro, e nel traffico impazzito di biciclette, minibus e carri da soma, avanziamo in direzione est, fino a Huruma. Ha l’aspetto del classico slum africano: vicoli di latta, baracche di lamiera, rifiuti. Mezzo milione di miserabili, accampati in vie senza nome. Obama fa strada nel fango, uno slalom tra gli acquitrini. È nervoso. «Sei sotto choc?», chiede. «Qui viviamo con meno di un dollaro al mese». Si ferma all’altezza di due grandi copertoni di gomma. Seduta davanti a un calderone, c’è una cugina, Mwanaisha Obama, 31 anni. Frigge patate, che intinge in una salsa piccante, e vende ai passanti. Al suo fianco, sgambetta il figlio, un piccolo di tre anni, di nome Osama. Alle loro spalle, una porta verde, e una parete di assi sghembe: lotto G63. Piccole lastre coprono i buchi. Entriamo. La sua baracca è subito a destra: due metri per tre. Dal tetto di lamiera penzolano tre stampelle e altrettante magliette; un poster dell’Inter, uno del Milan e un vecchio calendario di spiagge esotiche completano l’arredamento. C’è in realtà, un’altra cosa: la copertina di un giornale locale, con la foto di Barack Obama. Suo fratello. «Sei sotto choc?», chiede di nuovo.
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La prima volta che l’ho incontrato è stato per caso, nel villaggio ancestrale degli Obama. Ci si arriva in aereo, fino a Kisumu, la terza città del Kenya, nell’Ovest del Paese. Poi un taxi fino a Kogelo, un remoto villaggio di capanne sparse, in provincia di Nyanza. Lì, sotto un albero di mango, al termine di uno stretto sentiero, c’è la casa di nonna Sarah (che nonna, nel senso stretto del sangue, non è, ma ha tirato su come un figlio il padre di Barack). L’avrete vista, in giro: da quando il «nipote» è diventato una stella della politica americana, giornali e Tv sono planati da tutte le parti. Assieme al fotografo, arrivai una domenica di fine luglio, e fui fortunata. Non c’era nessuno, a parte le cinque vacche, la nonna, lo zio Said Obama e quel ragazzo timido ed emaciato, giunto in visita dalla capitale. Sgranava, in cortile, pannocchie di mais, tra le galline che beccavano a passo alternato. «Questo è George», disse lo zio Said, «il fratello piccolo di Barack Obama». Scoprii in seguito che non era quello il nome che usava: nel ghetto tutti lo chiamavano Hussein, il suo secondo nome, musulmano. Che la famiglia fosse antropologicamente interessante, era noto. («È un’opera d’arte», mi dirà, a Chicago, un ex assistente del presidente). Il padre, Barack Hussein Obama senior, aveva molto vissuto: poligamo, come quasi tutti in Kenya, alla sua morte aveva lasciato quattro mogli e otto figli. Si sapeva di Auma: molto vicina al fratello americano, nei mesi duri delle primarie democratiche gli aveva dato una mano in campagna elettorale. Si sapeva di Abongo, anche noto come Roy, anche noto come Malik: ogni tanto, dal Lago Vittoria, diceva la sua a riviste e giornali. Si sapeva dell’esistenza di tre altri Obama, uno in Cina, due a Londra: interpellati, avevano scelto di non parlare. Si sapeva anche che uno, David, era morto da giovane in un incidente di moto. All’appello mancava dunque soltanto lui: George Hussein Onyango Obama.

Lo rivedo qualche giorno dopo, a Nairobi. Ci incontriamo nel bar di un hotel del centro, dove accetta, per la prima volta, di farsi intervistare. Accetta di più, in realtà: di trascorrere con noi una giornata della sua vita. Ha scelto di uscire dall’anonimato. «Vivo come un recluso, nessuno sa che esisto», dice. Finora, se qualcuno gli chiedeva del suo cognome, e accadeva spesso, si schermiva: «Rispondo che non è un mio parente. Mi vergogno». Ha 26 anni, gli occhi sempre amari, e poco di cui vantarsi. Si è da poco iscritto al primo anno di un istituto tecnico commerciale. Ha per dieci anni vissuto per strada. Al bar dello Stanley, arriva in compagnia di un cugino, aspirante cuoco di Mombasa, chiamato pure lui Barack Obama. Dallo schermo di una Tv, a un tratto appare la faccia del noto parente: parla in diretta da Berlino. È il periodo del suo tour internazionale. Una folla di 200 mila persone lo ascolta rapita. Guardo entrambi i fratelli, quello al mio fianco, e quello in Tv. Hanno gli stessi lunghi arti, le stesse grandi orecchie. Sono stati entrambi abbandonati dallo stesso padre: uno a due anni, a Honolulu, l’altro a sei mesi, a Nairobi. Dallo stesso dolore, sono poi finiti dentro parabole opposte: uno a cavallo del sogno americano, l’altro dentro il più cupo degli incubi, l’incubo africano. Difficile immaginare due destini più diversi. Chiedo a George Hussein che effetto gli faccia, vederlo alla televisione. Sarà quella l’unica volta in cui lo vedo agitarsi: «Obama, Obama, Obama, sempre Obama! Ma non dovrebbero occuparsi anche di McCain?». Con il fratello, si sono visti un paio di volte. Della prima, conserva un vago ricordo, aveva solo cinque anni. Di quell’incontro, esiste una traccia: un paragrafo, nell’epilogo dell’autobiografia di Barack Obama, I sogni di mio padre, in cui lo descrive come «un bel bambino dalla testa rotonda e dallo sguardo circospetto». La seconda volta, fu due anni fa. Il senatore arrivò assieme alla famiglia: il Kenya era una tappa di un giro pubblicitario in tutta l’Africa. Con lui viaggiavano, oltre alla moglie, Michelle, anche le figlie, Malia e Sasha. Le portò a Kogelo, a conoscere la nonna Sarah, davanti alle telecamere. Si fermarono per 45 minuti. «È stato un incontro breve. Ci siamo parlati. È stato curioso. Come incontrare un estraneo», dice George Hussein. Gli chiedo se l’avesse mai invitato negli Stati Uniti. Dice di no. Dice di non averglielo mai chiesto. «I visti per l’America sono difficili». Gli chiedo se vorrebbe andare a Washington, dopo le elezioni. Dice di no: «Adoro il Kenya». Mi rendo conto che le sue risposte sono una forma di difesa preventiva; un modo per evitare nuove delusioni.

Il padre di questi improbabili fratelli era un personaggio rocambolesco, dall’ambizione feroce: Barack Hussein Obama Senior. Nacque nel 1936, su una sponda del Lago Vittoria, in un posto chiamato Kendu Bay. Era della tribù dei luo, la seconda del Kenya: gente dedita all’agricoltura e al bestiame. Suo padre, Hussein Onyango Obama, era stato il primo luo a indossare vestiti all’occidentale. Un giorno era tornato a casa coperto di buffe stoffe e gli avevano dato del folle e lo avevano cacciato dal villaggio. A quel tempo, tutti indossavano solo un lembo di pelle sui genitali. Come a tutti i luo, gli mancavano i sei denti frontali: era un rito di passaggio, tirarli ai ragazzi. Era finito a fare il cuoco per i colonizzatori inglesi. Non per sottomissione: semplicemente pensava che avrebbe imparato qualcosa di nuovo («Il senatore somiglia al nonno», disse lo zio Said). Barack Hussein Obama fu il suo secondo figlio. Il suo primo strappo alla tradizione fu riuscire a tenersi i denti. Il secondo, andare a scuola dai missionari. Per arrivarci, si faceva sei chilometri ad andare e sei a tornare, accompagnato da mamma Sarah («Il senatore è tutto il padre», disse lo zio Said). Crebbe irrequieto, e ribelle; emigrò a Nairobi; conobbe delle americane, che gli spiegarono come funzionava, nel loro grande Paese, il sistema universitario. Si innamorò di una fanciulla del villaggio, e la sposò: nacquero due figli. Li lasciò senza pensarci il giorno in cui ottenne una borsa di studio per andare negli Stati Uniti. Fu il primo studente africano a sbarcare a Honolulu, all’Università delle Hawaii. Lì, il keniano «nero come la pece» incontrò una pallida ragazza del Kansas, Ann Dunham. Non le disse di avere già una moglie a casa; gli parve un dettaglio ininfluente. La sposò nel 1960. Un anno dopo nasceva Barack. Due anni dopo, sempre in ascesa, sempre senza pace, abbandonò anche loro e andò a studiare Economia a Harvard.

Barack rivide il padre una volta sola, a dieci anni. Trascorsero assieme, a Honolulu, un disastroso Natale. Poi più niente, o quasi: notizie sporadiche, i racconti di sua madre e un profondo dolore. Come scrisse anni dopo nella sua autobiografia: «C’era un problema: papà era scomparso». Papà era ritornato in Africa. Faceva, all’epoca, una bella vita. Era diventato uno dei tecnici del primo governo post-coloniale di Jomo Kenyatta. Si era maritato un’altra volta, la terza, ed era diventato padre di altri due bambini. Ogni tanto, nei fine settimana, tornava al villaggio dalla prima signora, e dentro la capanna di paglia di Kogelo nacquero altri due piccoli Obama. Così, spensierato, Senior si dava da fare. Poi il vento girò, e assistette al declinare delle sue fortune. Denunciò la corruzione della nuova classe dirigente, e quella gli diede il benservito. Lo fecero fuori. Prese a bere. Prima di morire, probabilmente ubriaco, a 46 anni, fece in tempo a mettere incinta una quarta sposa. George Hussein Onyango era in fasce quando il padre si schiantò con l’auto. Barack, l’americano, studiava a quel tempo alla Columbia University di New York. Lo informò una zia che non conosceva, con una telefonata da Nairobi: «“Barry? Tuo padre è morto”. La linea cadde. Mi sedetti sul divano a osservare le crepe dell’intonaco cercando di quantificare la perdita» (da I sogni di mio padre). Nel 1987, a 26 anni, prese finalmente un aereo per Nairobi, alla ricerca della verità, o forse soltanto della pace che dà la chiusura di un cerchio. La trovò sotto un albero di mango, al limitare di un campo di grano, nel cortile di nonna Sarah, dove pianse per la prima volta sulla tomba del Vecchio. Era pronto: ci aveva molto riflettuto, si era molto logorato. Il bambino di Honolulu, lo vedremo in seguito, aveva fatto molta strada. A quella stessa età, George Hussein era ancora intrappolato nei fantasmi del passato. È una legge della natura umana, il tormento di chi si sente rifiutato. Mi resi conto, allora, che quel ragazzo emaciato era oggi quello che è stato ieri Barack Obama. Quello che egli sarebbe stato ancora oggi, se avesse avuto la ventura di nascere, invece che alle Hawaii, a Nairobi.

«Almeno Barack l’ha conosciuto. Voglio conoscerlo anch’io, voglio conoscere mio padre», dice George Hussein, piano. Stiamo seduti a bere birra Tusker sul balcone di un bar con vista sul fango di Huruma. Jael, sua madre, si è da tempo risposata, ha avuto altri figli e vive lontano. Lui è solo. Ogni tanto, a dargli una mano, provvede il fratello maggiore, Abongo: un signore che un tempo si faceva chiamare Roy e adesso, invece, Malik, in arabo. Ha cambiato nome, dopo la conversione all’Islam. È un curioso personaggio. Possiede un polveroso negozio di elettronica in un polveroso paesino nell’entroterra dei luo, a una ventina di chilometri dalla casa di nonna Sarah. Gli telefono, per un’intervista. Chiede soldi. Dice: «La storia di mio fratello ha preso una piega commerciale, e io deluderei la mia comunità se non le chiedessi un contributo». Che comunità? «La mia». Che contributo? «Un contributo». Malik è probabilmente il fratello più vicino a Barack Obama. È andato al suo matrimonio, a Chicago. È andato alla sua inaugurazione, al Senato. Gli spiego che è contrario ai miei principi pagare per un’intervista. Risponde: «Peccato», e mette giù. Racconto l’episodio a George Hussein e quello alza i sopraccigli. È un tic, quasi. Vuole dire no, o non so, o non importa: «Nella vita uno fa quello che deve fare». Lui è abituato a fare da sé. «Ho dovuto imparare a sopravvivere», dice. «A prendermi quello che mi serve». Nairobi non è un luogo ameno, men che meno lo è il ghetto. A Huruma, lo scorso gennaio, negli scontri post elettorali, almeno sei persone sono morte sotto colpi di machete.«La polizia qui non ti arresta, ti spara direttamente. Due miei amici li ho visti morire ammazzati». Gli chiedo come si è procurato tutte quelle piccole cicatrici. «Facendo a botte», dice. «Sono bravo a fare a botte». Da qualche mese, sta cercando di darsi una ripulita. «Nel caso tuo fratello diventi presidente?», chiedo. Innalza i sopraccigli. Studiare, è tornato a studiare. Fuma poche sigarette Portman, le più economiche, che compra una alla volta. Prova a bere poca birra, non i litri che si scolava un tempo, quando gli servivano sette Guinness per raggiungere un piacevole torpore. Torna a casa, la sera, nella capanna due per tre, oltre la parete di legno e lamiera. Soprattutto, fratello o non fratello, sembra propenso, dopo la nostra partenza, a continuare a vivere una vita anonima, e solitaria. Prima di lasciare Huruma, gli chiedo se ha una email. L’annota, senza fare una piega, su un pezzo di carta. Giorni dopo, gli scrivo: come la via senza nome in cui abitava, anche su Internet George Hussein Onyango Obama non ha una casella postale.
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Mer 07 Nov 2012, 17:40
festa nel paese del presidente Obama,con sua nonna

www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=DozbwV5SFA8#!
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Gio 08 Nov 2012, 23:20
Mi sembra un articolo piuttosto pretestuoso nonchè fuorviante, teso solo a mettere in cattiva luce il Presidente. Ri guardo il passato di Obama, parlano tante persone che sono state assistite legalmente e GRATUITAMENTE durante la sua carriera di avvocato. Parlano le sue decisioni, molto contrastate dalle lobby assicurative americane, a favore di una assistenza medica gratuita. Se non fosse diventato presidente degli Stati Uniti, il qui presente Hussein si sarebbe mai ricordato di avere un fratellastro (si fratellastro e non fratello poichè sono figli di due madri diverse, nati in epoche e situazioni diverse) che vive in America? Io non credo proprio. D'altronde Obama il suo viaggio alla riscoperta delle sue radici l'ha fatto. Purtroppo i giornalisti devono fare il proprio lavoro riempiendo gli spazi di parole, figuriamoci poi Vanity Fair, rivista nota per reportage sociali di cronaca e denuncia. Dovrei ripetere la frase di Totò ma non ho voglia..............

P.S. la foto lo raffigura in un dignitoso appartamento, di scuro non è una baracca di lamiera, vuoi vedere che la giornalista si è fatta fregare?
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Ven 09 Nov 2012, 04:01
Interessante articolo Jannis.
Personalmente non credo sussista l'intento di screditare la figura di Obama, quanto quello di ricostruire parte della sua esistenza e di comprenderne le inclinazioni attraverso la ricerca delle origini ed il racconto di chi fa parte di un nucleo familiare mai realmente esistito.
L'intento e' quello di far malinconicamente comprendere che la vita può prendere direzioni diametralmente opposte sulla scorta non solo delle proprie capacità personali ma di fattori difficilmente superabili.
Vivere in America consente,infatti, di avere delle chances di affermazione personale che sono ben diverse da quelle di chi un "nativo "africano ( direi,ormai, anche di un "nativo italiano").
Tutto questo, senza mai dimenticare che le origini di Obama sono quelle che gli hanno consentito di sviluppare un'empatia che ha permesso riforme epocali per un paese che ha sempre rifiutato il concetto di Stato sociale.
Per il resto,poi, credo poco nei messia, ma solo in pochi uomini dotati di straordinarie capacità ...
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Ven 09 Nov 2012, 12:35
Come ti cambia la vita nascere ad una latitudine piuttosto che ad un'altra Laughing
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